Sei anni fa, esattamente il 7 marzo 2015, alla Mole Vanvitelliana di Ancona veniva esposta la mia prima mostra fotografica, “Siria, tra macerie e speranze”, una collettiva realizzata con il contributo di alcuni citizen reporter di diverse città siriane, delle agenzie Aleppo Media Center AMC, Deir Ezzor Geographic, Deir Ezzore HD e Lens Young Syrian.
Nel giorno dell’inaugurazione mi è stato assegnato, da parte dei colleghi dell’Ordine dei Giornalisti delle Marche, il Premio “A passo di notizia” “per i reportage nelle città siriane devastate dai combattimenti e nei campi profughi di confine, per l’intensa attività di informazione e sensibilizzazione svolta in stretto contatto con agenzie e reporter clandestini”.
Mia sorella era mancata da meno di quattro mesi e al lutto collettivo per la tragedia del popolo siriano, si univa il lutto per la perdita personale. Il mondo sembrava fermarsi davanti ai miei occhi, ma quella volta furono le colleghe e i colleghi a esortarmi a guardare quegli scatti e capire che le persone che avevo immortalato avevano bisogno che io dessi loro voce. Questa mostra, di cui pubblico qualche scatto, mi ha esortato ad andare avanti.
“Quando arrivo ad Aleppo è ormai notte. La città è immersa nel buio più profondo e le uniche luci sono quelle di cassonetti incendiati e di alcuni generatori. L’aria è irrespirabile: è l’odore della morte che avvolge il centro abitato. Il buio è interrotto solo dagli spari; raffiche di mitra ed esplosioni scandiscono la notte. Alla luce del sole scopro intorno a me macerie e devastazione. Fa uno strano effetto vedere bambini che camminano in strada, anziani seduti a fumare, donne e uomini che si muovono furtivi. Fa uno strano effetto rendersi conto che la gente lotta disarmata per sopravvivere. Anche i cecchini si sono svegliati e sparano, feriscono, uccidono. Inizio la mia prima intervista con un volontario della Protezione Civile che, a mani nude, scava alla ricerca di corpi intrappolati sotto il peso delle loro stesse case piegate dalle bombe. Sentiamo un urlo. Ho la fotocamera appesa al collo e la handycam ancora in borsa. Le accendo entrambe, le metto in funzione: hanno trovato il corpo di una donna. Era lì da una settimana. Le prime immagini che immortalo sono quelle di giovani intenti a recuperare i corpi senza vita di civili uccisi senza pietà da ordigni illegali. I cadaveri sono ormai irriconoscibili; una striscia di nastro adesivo con su scritta la data e il luogo del ritrovamento diventa l’unico segno distintivo. è la Siria di oggi: la terra dei gelsomini coperta di fosse comuni. Nelle zone di periferia immense distese di tendopoli in mezzo agli uliveti fanno da riparo a milioni di sfollati. Negli ospedali da campo i feriti sanguinano a terra senza neppure un letto. I bambini non vanno a scuola da quattro anni e con i loro occhi grandi ti interrogano senza farti domande. Quando sorridono, tutto intorno sembra tacere“.