18 marzo 2014 – Aleppo (località Share’ sad Allouz, Hay Alshear)
“Il regime ci bombarda perché cerchiamo di tornare alla normalità. Ma noi non ci arrendiamo, vogliamo vivere”.
“Vi prego, ditemi, mio figlio è morto?”. “No, lo giuro, è solo ferito l’hanno portato al punto di soccorso”.
“Signore guarda questa miseria, Signore ti affido il mio dolore”.
“Attenti, lassù ci sono ancora dei bambini da soccorrere”.
“Il mercato era aperto e la situazione era normale, c’erano persone raggruppate che compravano frutta e verdura. Poi è arrivato il missile e ha provocato questa devastazione”.
“Avete visto mio padre?”. “Tuo padre non era nel quartiere, non cercarlo qui”.
Sono le frasi concitate pronunciate dagli abitanti del quartiere di Hay Alshear, ad Aleppo, dopo l’ennesimo bombardamento che ha colpito la zona, nel primo pomeriggio di oggi, 18 marzo 2013. La zona residenziale è ancora densamente abitata e nei momenti di tregua la gente cerca di tornare alla “normalità”, di comprare da mangiare, andare il farmacia, lavorare. Ma a tre anni dall’inizio del genocidio in Siria la quotidianità di cui hanno bisogno i civili sembra una chimera. La morte arriva in ogni momento, senza preavviso. Si bombarda, si lanciano razzi e missili, si spara, quasi a punire il desiderio inesorabile di vita, che non abbandona bambini, donne, uomini che restano nelle loro case, nella loro città, nella martoriata Siria. Non si tratta né di brigate armate, né di miliziani che combattono. Più dell’80 per cento della popolazione siriana non ha mai imbracciato un’arma, eppure sono tutti condannati a pagare per la violenza di un regime che non esita a devastare intere città e ad assoldare criminali internazionali per mantenere il controllo e il potere sulla Siria. Siamo al quarto anno consecutivo di violenze, eppure il cessate il fuoco non sembra in programma. La parola d’ordine continua ad essere, inesorabilmente, morte. Fino a quando?
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