Il racconto di Abu Majed, padre di un ribelle
“A Hama avevo un negozio di parrucchiere. Un’attività che ho ereditato da mio padre, che a sua volta l’ha ereditata dal nonno. Il lavoro andava bene, a casa non ci mancava nulla. Speravo che il maggiore dei miei figli portasse avanti questa tradizione, ma Majed non ha mai mostrato entusiasmo per la mia professione. Era un ribelle. Amava studiare e sin da piccolo, ogni volta che gli dicevo di venire con me in negozio, faceva capricci, oppure mi seguiva, ma portava con sé un libro. Gli ho sempre detto che non gli serviva a nulla studiare, perché aveva già un lavoro sicuro. La sua stanza era piena di disegni di case, ponti, edifici: diceva che voleva fare l’ingegnere. Una volta mi sono arrabbiato con lui perché al negozio avevo molta gente e lui non era venuto ad aiutarmi, preferendo rimanere al computer a guardare siti di costruzioni; così la sera sono entrato in camera sua e gli ho strappato tutti i disegni, buttando a terra i modellini che aveva costruito. Povero figlio mio, era molto educato, non mi ha detto nulla e il giorno dopo, finita la scuola, si è presentato da me in negozio. Ero convinto di fare il suo bene, ma mia moglie mi diceva sempre che gli stavo tagliando le ali, che lo mortificavo e che ero ingiusto. Lui si sfogava con lei, ma io non ho mai ascoltato le sue lamentele.
A maggio del 2011 un mio cugino che lavora nel mukhabarat, servizi segreti, è venuto da me in negozio. Mentre gli facevo la barba mi ha detto che avrei dovuto controllare Majed, perché lo aveva visto partecipare ad una manifestazione contro il regime. Ho sentito il sangue gelarsi. In famiglia nessuno di noi si è mai interessato alla politica, non esisteva proprio come argomento e mai avrei immaginato una situazione così. Sono andato a casa e gli ho detto di salire in auto con me, che dovevo andare a comprare cose per il negozio e mi serviva il suo aiuto. Non volevo parlare davanti ai figli più piccoli. Gli ho detto cosa mi aveva detto mio cugino e che gli ordinato di non prendere mai più parte a cortei e altre sciocchezze simili, che non ci servivano guai, che non doveva permettersi di fare certe cose. A differenza delle altre volte, Majed mi ha risposto: ‘Papà stiamo manifestando per chiedere libertà, per aver un domani. Stiamo manifestando perché il nizam (regime) se ne vada e i suoi scagnozzi smettano di venire da te tutti i mesi a chiederti rashwa (tangenti)’. Continuava a ripetere la parola horrie. Mi sembrava impossibile. Mi sono messo a urlare, ho maledetto la libertà e il giorno in cui hanno pronunciato per la prima volta questa parola in Siria. Noi vivevamo bene, infondo pagare i servizi segreti significava avere tranquillità. Ho proibito a Majed di proseguire il suo discorso e gli ho proibito di andare alle manifestazioni. Ho detto a mia moglie che Majed per qualche tempo poteva solo andare a scuola e in nessun altro posto, senza darle spiegazioni e che se avesse disobbedito avrei ritenuto lei responsabile. Pensavo fosse finito tutto lì.
Invece qualche giorno dopo, mentre lavoravo, ho sentito dei giovani in strada che cantavano. L’ennesima maledetta manifestazione, mi sono detto. Ho continuato a lavorare finché non ho sentito degli spari. Mi sono affacciato sulla porta del negozio e ho visto una folla di persone che correvano, mentre la polizia sparava. Ho abbassato la saracinesca, con i clienti dentro, per proteggere loro e me stesso. Le grida sono andate avanti per un po’ di tempo, poi tutto si è tranquillizzato. I miei clienti sono corsi a casa e mentre stavo chiudendo ho visto avvicinarsi alcuni uomini. In mezzo c’era Majed e con lui mio cugino. ‘Guarda tuo figlio, era in mezzo a quei criminali’, mi hanno detto. Non credevo ai miei occhi. Istintivamente ho alzato un braccio e l’ho schiaffeggiato, dicendogli di chiedere subito scusa ai gendarmi. Majed allora ha detto: ‘Scusa papà’. Gli ho dato un altro schiaffo, maledicendo lui e chi gli aveva messo in testa quelle idee. Gli ho ordinato di nuovo di chiedere scusa e per la seconda volta mio figlio ha detto: ‘Mi scuso con te papà, solo con te’. Volevo picchiarlo ancora, ma mio cugino è intervenuto, dicendomi di tenere a bada Majed e che per quella volta il suo capo lo aveva graziato.
Siamo tornati a casa senza dirci una parola. Majed è andato in camera sua. Quella sera stessa ho detto a mia moglie che dovevamo vendere un terreno che avevamo comprato. Lei mi guardava allibita, continuando a chiedermi cosa fosse successo. L’indomani sono andato alla caserma per consegnare a mio cugino circa 2 milioni di lire (10 mila euro). Lui non c’era, così ho chiesto di vedere il suo superiore; mi ha ricevuto, ha preso i soldi. Gli ho detto che se fosse servito sarei andato a vendere il negozio. Mi ha detto che andava tutto bene. Sono andato al negozio e anche se ero molto agitato, pensavo che tutto si sarebbe risolto, come sempre, col denaro. Così è stato, per due o tre giorni, finché una mattina mi hanno telefonato al lavoro dicendomi di tornare subito a casa. Pensavo che Majed fosse stato arrestato e durante il tragitto ho maledetto di nuovo la libertà, ho maledetto persino lui. Quando sono arrivato la porta di casa era aperta e c’erano decine di persone. Majed era avvolto in una coperta, per terra. Mi sono piegato su di lui, pensavo stesse male. Ho tolto la coperta. Era tutto coperto di sangue. Era morto. Ucciso da una raffica di spari sul petto. Aveva pagato il suo tradimento con la vita.
Al suo funerale sono venuti centinaia di ragazzi; non sapevo avesse tanti amici. Hanno accompagnato il feretro in moschea e poi al cimitero, cantando: ‘Il martire è amato da Allah’. Poi tutti mi sono venuti intorno, mi hanno abbracciato, dicendomi ‘tuo figlio è un eroe, eroe della libertà’. Non capivo più nulla. Mia moglie e i figli più piccoli sono partiti per Deir Ezzore la sera stessa, raggiungendo la casa dei miei suoceri.
Ho continuato a maledire la libertà finché un giorno non sono entrato nella stanza di Majed. Ho aperto i cassetti della sua scrivania e ho trovato un mare di disegni, ma non erano solo case e ponti. C’erano anche scritte inneggianti la libertà. Suria Horra, Siria libera, aveva scritto ovunque. Una mattina si è presentato a casa mia un ragazzo, dicendomi che era un suo amico. Mi ha lasciato una busta con dentro delle foto. Erano foto delle manifestazioni, decine di foto. Majed era abbracciato con altri giovani e cantava. Aveva il viso sorridente, felice. Non avevo capito nulla di mio figlio. Oggi lo rimpiango con tutto il cuore. Mio figlio è morto da uomo libero. Io sto morendo in un campo profughi.
Sei mesi dopo la morte di Majed mia moglie, i miei figli, i miei suoceri e due cognati sono rimasti tutti uccisi nel bombardamento che ha colpito il villaggio dove vivevano”.
Lo scrivo qui, anche se non c’entra con questo post, perché se non lo butto fuori esplodo.
Ho visto un post, in un blog. Aveva come tag “Siria, armi chimiche, ennesima bufala americana”. Evidentemente quel migliaio di persone sono tutte morte di raffreddore. Capisco che si possa non amare l’America. Capisco che si possa ritenerla responsabile di molte cose. Ma che, per ideologia, si possa arrivare a negare ciò che sta davanti agli occhi di tutti, ecco, questo va al di là di ciò che posso arrivare a capire.
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Ciao Barbara, non mi stupisco se tra qualche tempo diranno che sono stati gli alieni di X files. Oltre 1400 persone sono morte in quell’attacco, tra cui centinaia di bambini innocenti. Nessuno ha provato a chiedersi i loro nomi, a raccontare le loro storie. Non fanno notizia. Come non fanno notizia le morti di migliaia di persone sotto le bombe, per gli spari dei cecchini, per esecuzioni, attacchi con armi bianche… è vergognoso, quelle povere anime interrogano le nostre coscienze assopite.
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