1 giugno 2013 – Saqba, provincia di Damasco
Un giovane siriano, Mahmoud Abu Habra, è stato ucciso. Familiari, vicini di casa, amici portano il corpo avvolto in un sudario bianco fino al luogo della sepoltura.
La fossa è già scavata. L’ultimo addio, le invocazioni ad Allah, il dolore.
Un uomo si precipita sul corpo esanime, grida.
I ragazzi che lo stanno tumulando, tenendolo sulle braccia, si fermano.
“No, no, non lo mettete giù, no… Lasciate che io l’abbracci ancora, lasciate che gli dica addio”.
E’ il dolore e lo strazio di un padre. Si piega sul figlio ormai morto, lo stringe, lo bacia, respira il suo profumo per l’ultima volta.
Poi viene allontanato. La tumulazione deve proseguire. Potrebbero riprendere i bombardamenti.
Un genitore che sopravvive al figlio è un essere umano privato della sua stessa vita.
In quell’ultimo abbraccio c’è tutto il dolore di un amore sradicato con la forza. C’è l’angoscia di un uomo che dà l’ultimo addio alla sua creatura.
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