Quando si sente parlare di bombardamenti, di guerra, di morte e distruzione, nel nostro immaginario si materializzano scene terribili, che istintivamente ripudiamo, che vorremmo non si materializzassero mai. Vedere simili realtà da vicino, immergervisi per due settimane, guardare la sofferenza nei volti dei bambini, delle donne, dei giovani e degli anziani lascia un segno indelebile, una ferita che non si rimargina. È un bagno d’umiltà, ma è anche l’occasione per promettere a se stessi di stare sempre dalla parte degli ultimi, dei più deboli, di quelli che non urlano, ma sanno ancora sussurrare parole gentili, nonostante il dolore, nonostante tutto.
Ai miei figli ho sempre detto che quando sarei “diventata grande” sarei partita per i posti in cui ci sono bambini che soffrono, per raccontare al mondo le loro storie, affinché diventassero un monito per le coscienze di tutti. Il mio primo viaggio con questo spirito l’ho fatto in Siria, terra delle mie origini, martoriata da oltre 29 mesi i repressione. Sono tornata da una settimana circa e ancora non mi capacito di ciò che ho visto e ascoltato.
Ho visitato campi profughi, scuole aperte da volontari, strutture di riabilitazione per feriti e mutilati, centri di accoglienza per sfollati, punti di primo soccorso ospedali da campo e abitazioni di famiglie che, nonostante i bombardamenti si sentono più protette tra le mura domestiche che altrove. I mille aspetti di ciò che una guerra provoca. Ho incontrato persone con una dignità e un coraggio incredibili, con uno spirito d’accoglienza e ospitalità commuovente. Immaginate di entrare in una tenda, la “casa” di una famiglia di profughi e sentirvi dire “mit ahla wa sahla”, mille volte benvenuta; immaginate il sole cocente di agosto e loro che si prodigano a portarti un bicchiere d’acqua fredda, pur non avendo acqua corrente, né elettricità; immaginate di passare la notte in quella tenda e vedere queste persone che ti offrono il loro cuscino, la loro brandina, tutto ciò che hanno pur di metterti a tuo agio; immaginate che nella notte sentite distintamente spari ed esplosioni e loro che vi vengono vicino a dirvi di non aver paura, che i rumori per fortuna arrivano da lontano. Sono stati privati delle loro abitazioni, del loro lavoro, dei loro villaggi e delle loro città, dei loro amici, dei loro famigliari, ma nessuno ha potuto rubare la loro anima, il loro spirito gentile.
Questa situazione di disagio, di privazioni, al limite della sopportazione, ha costretto migliaia di bambini e bambine a diventare grandi prima del tempo; ha cancellato il sorriso dai volti di madri e padri che sono stati costretti a tumulare i propri figli; ha privato giovani donne e uomini della persona amata, lasciando nelle loro vite un vuoto incolmabile. Ogni tenda che ho visitato, ogni rifugio, ogni letto di un malato, è stata l’occasione per ascoltare un dramma, raccontato sempre con grande compostezza; a volte i loro occhi si riempivano di lacrime, ma come mi ha detto una mamma del campo profughi di Atma, che ha perso i suoi figli nell’incendio della sua tenda, dove li aveva portati per sottrarli alle bombe “non hanno ancora inventato qualcosa che riprenda ciò che abbiamo dentro, a parole e con le foto non si riesce davvero ad esprimere”.
Stavo effettuando delle interviste ad Idlib, nella zona periferica, con il sottofondo degli spari dei cecchini, con tutte le difficoltà della situazione, quando mi si è avvicinato un bimbo; “scusa khale, zia (come si usa chiamare le persone adulte), sei una giornalista, stai scrivendo le storie di queste persone?”. Sì, gli rispondo. “Posso raccontarti anche la mia?”. Ci sediamo sul ciglio di un marciapiede; mi dice il suo nome, ma per ragioni di sicurezza lo chiamerò Yassine; mi sembra davvero di avere davanti un piccolo uomo, che si scusa perché non può accompagnarmi verso la sua casa, ma la madre è in ospedale e il papà è morto; lui e i suoi tre fratellini (il più piccolo ha circa 1 anno), vivono da uno zio. “Sono venuti i soldati in casa nostra una mattina; papà faceva il tassista, accompagnava le persone in giro anche quando si sparava, ma spesso accompagnava anche feriti agli ospedali da campo. Chiedeva poi a mamma di dargli uno straccio per pulire il sangue. Eravamo fieri di lui, anche quando tornava dispiaciuto dicendo che quel giorno aveva fatto solo servizi gratuitamente e quindi non aveva potuto comprare nemmeno il pane. Quella mattina hanno bussato talmente forte che ci siamo svegliati tutti spaventati. Mamma era incinta. Papà è andato ad aprire e io gli sono andato dietro. Mamma e i fratelli più piccoli sono rimasti nella stanza da letto. Erano cinque, sei. Mi sono nascosto dietro le scale e ho visto tutta la scena: appena entrato uno di loro ha colpito mio padre al mento con la parte posteriore del suo mitra, facendolo cadere a terra. Poi ha messo un piede sulla sua testa e ha cominciato a insultarlo, mentre gli altri rovistavano ovunque e buttavano a terra tutto quello che gli capitava sottomano. Volevo andare da lui, ma mi sentivo paralizzato. Quell’uomo continuava a premere con il suo peso sulla testa di mio padre, che sanguinava, dicendogli che doveva morire perché era un cane, perché solo i cani soccorrono i cani feriti. Papà cercava di parlare, ma ogni volta quel soldato gli dava un calcio. Poi gli hanno detto che poteva alzarsi. Ha cercato di mettersi in piedi, ma uno gli ha sparato al ginocchio e gli altri si sono messi a ridere. Papà è caduto, lo hanno riempito di calci dicendogli che doveva alzarsi, mettendo le mani sulla testa e senza lamentarsi. È la punizione che meritano i traditori, quelli che portano a farsi curare i nemici, gli ripetevano, coprendolo di insulti. Ha cercato di rialzarsi una seconda volta, gli hanno sparato ancora e di nuovo ridevano tutti, poi uno gli ha tolto i pantaloni e gli è saltato sulla schiena. Più volte. Ho sentito mio padre singhiozzare; non aveva mai pianto da quando sono nato, ma era pieno di sangue. Poi il loro capo ha detto che si era stufato e che quel cane aveva imparato la lezione. Pensavo che sarebbero andati via. Invece proprio lui prima ha sputato su mio padre, gli ha urinato sopra e poi ha aperto il fuoco su di lui. Se ne sono andati ridendo e sputando. Khale vorrei che raccontassi questa storia perché per me mio padre, che si chiamava Mohamed, è un eroe e non un cane; lo hanno ucciso perché soccorreva feriti col suo taxi; è un shahid (martire), voglio che la gente sappia la sua storia”.
Yassine mi è entrato nel cuore; mentre parla non fa pause, non si commuove. Le lacrime arrivano solo quando, alla fine, mi dice che il padre è un eroe e mi prega di sottolinearlo nel mio racconto. Quando lo zio del piccolo si accorge che mi sta parlando lo sgrida e mi dice di cancellare tutto, perché non vuole che vengano a uccidere anche lui, che sono scappati da Hama rifugiandosi lì proprio per metterli in salvo. Cancello le foto; comprendendo la sua preoccupazione e gli prometto di non mettere il cognome, né alcun riferimento. La gente è terrorizzata, ma Yassine ha visto il padre ammazzato e vorrebbe che con il mio racconto onorassi la sua memoria e io lo voglio fare. Quando ci alziamo e sto per andarmene mi chiede se mi può salutare o se sono di quelle che non danno la mano ad un uomo. Gli dico che sono onorata di stringere la sua mano. Non gli chiedo un bacio, anche se potrebbe essere mio figlio, perché è un piccolo uomo e in Siria non si usa.
È una delle tante storie, delle tante tragedie che continuano a consumarsi a sole quattro ore di volo dall’Italia. Questo racconto è forse quello che rende meglio il senso della mia missione come giornalista: non sono andata a raccontare scontri, battaglie, né per indagare su tesi politiche, ma per sedermi con la gente e ascoltare le loro storie, guardandole negli occhi, entrando in sintonia ed empatia con loro. Credo che sia il modo migliore di onrare la nostra professione e aiutare le persone che subiscono ingiustamente pene disumane.
Sono sicuro che adesso il Padre di Yassine sia in Paradiso.
"Mi piace""Mi piace"